Marco Praloran Un luogo per condividere il ricordo di Marco

ricordo di Nicola Morato

Incontro con Marco Praloran

Credo di dovere a Marco Praloran, il mio primo maestro, il sentimento dell’estensione e il desiderio di misurarla e percorrerla, di starci dentro e di passarci attraverso, di associare le costruzioni umane, l’azione e le cose, allo spazio e al tempo, cioè a questioni di ritmo.
Non si tratta di immensità né d’oltrecielo. Non era, almeno non nei momenti trascorsi insieme, primariamente questo ad attrarre Marco. Certo lo affascinava l’apertura del paesaggio. Ricordo purtroppo solo una minima parte di quello che disse guardando giù, fu del resto la più lunga delle confessioni che mi fece, durante il nostro ultimo itinerario di una certa lunghezza, in aereo due anni fa, da Venezia a Francoforte, era dicembre poco dopo l’alba. Tuttavia, non credo fosse questa la radice della fascinazione, del resto lui non era uomo da aereoplani, e non credo gli interessasse molto più, almeno non come oggetto primo e immediato, l’indagine dei livelli ulteriori.
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Cos’è l’estensione, estensione di cosa, cosa la rende tale. Ecco le questioni con cui tornavamo a casa o in biblioteca dopo i suoi corsi di Stilistica e metrica italiana in aula Folena, grazie a cui riuscivano meglio e più facili, con coinvolgimento più profondo e personale, gli esami di letteratura o di storia dell’arte. Era, in effetti, un concetto legato generalmente alla percezione, soprattutto visiva e psicologica, che dunque cominciava – mi viene un paragone che penso le letture di Marco non smentiscono – alla maniera del Warburg Institute, da un fatto culturale e di lunga durata.
Il soggetto sta al centro, nel senso che ne è l’origine e insieme il luogo di proiezione, e però questo, la posizione del soggetto e i suoi tracciati, era reso possibile da una forma, da un limite oggettivo, una recinzione o anche solo un insieme di direzioni potenziali e di direzioni non possibili.
Libertà e oggettività, non opposte e alternative, ma una generata dall’altra, insieme e disgiuntamente. Marco insisteva molto su questa intuizione che non avevo mai sentito, fino ad allora, spostare così al cuore del problema stilistico ed enucleare con tanta chiarezza e decisione. Erano le sue lezioni su Petrarca, mi pare di ricordare nel 2001, si trattava in realtà di una supplenza: ripeteva il concetto dantesco dell’eccellenza dell’endecasillabo, superbissimum carmen tam temporis occupatione quam capacitate sententiae. Sentivo queste parole per la prima volta. La grandezza di Petrarca, il suo vertiginoso confronto con la concezione dantesca della forma e dello spazio metrico, era, dal punto di vista di Marco, stata anche quella di conferire piena espressione a questa estensione, tutta interna e soggettiva, non in quanto ‘personale’ ma in quanto radicalmente nuova. Lungamente perseguita ed eminentemente controllata, intellettuale al sommo grado: soprattutto, questo era la novità, al cento per cento sperimentale e audacissima. Così ho conosciuto Marco, da questo punto in poi.
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Ho realizzato solo in seguito che in tale estensione-intensità, tutta lirica – occupante un lasso di tempo cioè un enunciato, breve o brevissimo se considerato in termini meramente cronici – Marco viveva molto concretamente gli accadimenti quotidiani, spesso in oggetti e relazioni minime, frammenti di avventura paesana, gazzese, a volte avventura amorosa.
Ad essa faceva da contrappunto l’estensione-estensione, se si può dire così, per esempio della lettura di romanzi o dello sport, e anche delle amicizie e affetti.
Conobbi subito dopo, all’inizio leggendo i suoi saggi, il rapporto di Marco con la narrazione, un rapporto antico e molto legato, come quasi tutto quello che muoveva Marco, all’amicizia con Paolo Gagliardi. Legato, più in generale e in maniera costante, a tutte le stagioni della vita e ai momenti della giornata. È cosa risaputa, se non altro perché ne raccontava dei pezzi a tutti, spesso identificando personaggi e persone reali, che Marco ha percorso praticamente tutta la narrativa occidentale, Russia ovviamente compresa. Paolo nella prima adolescenza aveva già letto Pulci e Boiardo e, nelle pause di interminabili matches a tennis, gli fece scoprire i poemi quattro-cinquecenteschi in ottava rima.
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Forse per farmi cambiare di ritmo di studio e scrollarmi di dosso il tipo di lettura tipicamente studentesca che quasi tutti avevamo, mnemonizzante e sonnambulica, compitante e quasi mantica, mi suggerì i romanzi di re Artù.
Ne aveva letti una buona fetta, anche se non proprio tutti. Non era, del resto, un lettore sistematico né vorace in senso rablesiano; più che altro seguiva un’interiore esigenza, una pulsione esplorativa rispetto a tutto ciò che è raccontato, la vita consegnata al discorso e il modo in cui nel discorso è rivissuta daccapo.
Aveva letto, dicevo, quelli più importanti per i poemi cinquecenteschi, quelli cui fanno costante riferimento le Fonti del Rajna, per capirci: Lancelot en prose, Tristan en prose, Guiron le Courtois. “Sono bellissimi” (ancora Dante. Dante emergeva sempre da altro, per intima necessità di un percorso critico profondamente interiorizzato e divenuto semplice, apparentemente spontaneo), “ci vogliono quattro mesi per leggerne uno, nessuno li ha tradotti in Italiano.” Avrebbe voluto tradurre lui la Mort Artu, che gli capitò di ritenere “il capolavoro romanzo prima della Commedia”, a partire da una nuova edizione critica di cui allora si parlava come un evento abbastanza imminente. Lino conserva ancora qualche pagina di traduzione che era stata presentata o doveva essere presentata ad Adelphi.
Insomma, finii a studiare quelle cose lì per decisione sua, e sono rimasto a studiarle per l’incapacità di fare come lui e cogliere le occasioni buone per liberarmene almeno per un po’.
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Non ci siamo mai frequentati moltissimo, lui del resto era sempre altrove, o avrebbe dovuto esserci cinque minuti dopo il suo arrivo, cioè mezz’ora in ritardo rispetto all’ora del nostro incontro – anche quando vissi a Lausanne con lui, per circa un mese la prima volta e due la seconda, andava e veniva costantemente, e non solo dall’Italia.
Nel tram, alla mattina, parlavamo dei personaggi arturiani, per me si trattava anche di lavoro, anzi per entrambi, ma con Marco non sono mai riuscito davvero a lavorare, era soprattutto un lavoratore solitario. All’occorrenza sapeva chiudersi in una specie di cerchio magico, in un nucleo di solitudine impenetrabile: da qui il senso generale, non di mistero questo mai, ma di incertezza rispetto alle sue attività. È vero, Marco favoleggiava di sé come di chiunque altro, a ma anche gli altri prendevano gusto a favoleggiare di lui. Ognuno del resto era convinto di avere con lui un rapporto specialissimo, era l’impressione di confidenza e fiducia che accordava a chiunque gli andasse e spesso anche a quelli che non gli andavano per niente.
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A lui piaceva Galeotto, che teneva insieme vari nodi tragicomici della sua vita (in effetti ne parla nel primo dei suoi romanzi), e ultimamente la Ginevra della Charrette, tanto più quando i suoi comportamenti erano gratuiti ed enigmatici; io tenevo invece per Galvano (più o meno in tutte le sue manifestazioni precedenti il Tristan en prose, in cui diventa un malfattore maniaco), come credo capiti alla maggior parte dei principianti.
Si passava quasi senza soluzione di continuità ai pianisti (Marco passava volentieri anche ai calciatori o ai boxers), un po’ tutti. Abbiamo fatto ascolti comparati, gli ultimi in quell’appartamento un po’ incongruo, nel palazzo del conte Cicogna (per una strana coincidenza in Contrà san Marco), in particolare di Richter Goulda Arrau. Amava, credo sopra ogni altro, Sviatoslav Richter, e di Richter quasi tutto, cioè il fatto che Richter avesse suonato qualsiasi spartito (alla Sala dei Giganti lo aveva ascoltato dal vivo negli Études-tableaux, “ma per amore suo, certo non di Rachmaninoff”), e al contempo “che non fosse attratto dalle integrali.” Ristrettissimo, quasi ascetico, il repertorio di Michelangeli, e infatti ammirato “ma solo quando tocca il vertice del suo virtuosismo”: altra esplorazione ‘verticale’ dell’estensione umana, avanzamento del suo limite oggettivo.
Pensavamo, prima che dovessi partire per gli Stati Uniti, a un pomeriggio sui quartetti, in particolare Haydn e l’ultimo Beethoven: “ci vorrebbe un piccolo sforzo per proteggere il sentimento della forma. Che disastro.” Eravamo a pranzo da Rocco, una delle gelaterie storiche di Padova poi divenuta bar-ristorante maggioritariamente per universitari, a un tavolo in cui si parlava di politica.
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Agonismo, desiderio di superare il proprio limite interno e la difficoltà esterna, senso della competizione. Il godimento della macchina che funziona, che continua funzionare, a fornire lavoro e qualità di prestazione alla volontà, Marco era capace di una determinazione ferrea. Gli piaceva arrivare primo e lo ammetteva in modo schietto, quasi infantile. Ci teneva soprattutto in competizioni come la raccolta dei funghi a Belluno, le partite di biliardino a Gazzo, il tennis e sicuramente anche nell’amore e nella vita accademica, persino nelle questioni bancarie, anche se di questi aspetti, non essendo dei suoi coetanei, ho più che altro testimonianze indirette.
Ho un ricordo personale: il nostro intervento in occasione di un seminario ad Ascona. Come gli capitava, stava parlando a braccio e non era partito proprio benissimo, per motivi esterni che non vale la pena ricordare. Si accorse a un certo punto che il pubblico lo sfuggiva, era distratto e parlottava: cambiò passo, cambiò registro, come quando un ciclista capisce che non sta utilizzando i rapporti giusti della bicicletta (Marco era anche questo, ciclista e più in generale corridore).
Avevo gli occhi fermi sulle sue mani, ero un tantino deluso e demotivato perché poi avrei parlato io. Avvertii subito lo scarto: lui addirittura chiuse i pugni, via via più stretti. Il pubblico era ora tornato in suo potere, seguivano ogni singola parola e molti prendevano appunti; a quel punto, come giunto in cima, si concesse un istante di autocompiacimento: “Come dice il filosofo Adorno…”. Qui una pausa, mi fece pensare subito a certe pause teatrali che Richter diceva di aver imparato da Neuhaus. “Scusate, in questo momento non riesco proprio a ricordarmi cosa dice Adorno.” Ripresa tipicamente praloraniana.
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Era incredibile, a tratti addirittura insolente, la serenità, la sua capacità di riportare tutto a una misura, spesso a una stessa misura. Poteva scordare qualsiasi cosa, i suoi occhi ridevano.
Le distrazioni, quotidiane e clamorose, esibite e ricordate in maniera impertinente, divenute quasi leggendarie presso gli amici, erano insieme manifestazione di questa equità, e anche una specie di ammissione dell’intermittenza della propria energia intellettuale e vitale, una sorta di buffa discontinuità della propria presenza qui e ora. Per certi versi questi svarioni lo difendevano, direi anzi che ne custodirono la libertà: nessuno avrebbe richiesto a Marco un lavoro di acribia, pazienza, esattezza. Sapevamo tutti che la somma delle percentuali nelle bozze dei suoi libri difficilmente faceva cento. Science avec patience, le supplice est sûr, lo aveva fatto divertire questa citazione da giovane mascalzone.
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Con Marco l’erudizione – esattamente come la lettura – era legata al ritmo della scoperta, era fortissimo in lui il senso e l’esperienza del trapassare della conoscenza in altro, a volte si trattava anche di saggezza, di “accontentarsi che certe cose le si sono sapute a un certo punto”, il che, soprattutto nei primi anni della nostra amicizia, mi pareva avere, come la caccia e altre forme praloraniane di dedizione sfrenata al presente, qualcosa di localmente, venetamente, nietzscheano.
Un imprenditore veneto, di strana e quasi incongruamente complessa articolazione interiore, sarebbe diventato di lì a poco protagonista del suo secondo romanzo.
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Libertà di percorsi culturali e critici, respiro e rilancio inesausto della lettura (rilettura periodica dei più grandi e più grossi: dai poemi cinquecenteschi e alla Recherche, la sua ultima esplorazione estensiva del romanzo di costume inglese, soprattutto Trollope), Marco ha associato alla critica e all’analisi dei testi e delle tradizioni la costante pratica di un registro speculativo, sempre sottotraccia per motivi sia di sprezzatura che di affabilità nei confronti dei propri studenti.
Non poteva sfuggire a nessuno, fin dalla prima ora di lezione, il dialogo con alcuni particolari momenti del pensiero secondonovecentesco: “alla fine i miei due maestri sono stati Adorno e Lacan.”
Questo è un punto fondamentale, che forse potrebbe sfuggire o comunque sembrare un aspetto marginale a chi non abbia frequentato i suoi corsi. Solo un esempio, ma è un esempio a partire del quale se ne possono rinvenire retroattivamente molti altri nelle scritture di Marco: l’impegno nel ricercare ed esprimere nei Fragmenta una complessità di pensiero, una profondità e potenza di discorso astratto, teoretico quasi, velata perché indistinguibile dalla soggettività; soprattutto il libero fluire del discorso, del soggetto nelle sue contraddizioni e discontinuità, nelle canzoni. Soprattutto nelle canzoni degli occhi. Sarebbe un Petrarca nuovo, lontanissimo, per intenderci, da quello continiano.
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Marco ha scritto poesie in versi liberi, quelle che ho letto sono testi brevi o brevissimi con interlinea doppio e senza maiuscole, e due romanzi, che ha lasciato circolare fra gli amici, su cui ha messo al lavoro o lasciato lavorare conoscenti e a volte anche accettato consigli da sconosciuti, e che non ha mai pubblicato. Tutta materia che, insomma, non proteggeva e non conservava.
Amava ricordare il fatto che Giacomo Noventa per lunghissimo tempo avesse affidato i suoi testi unicamente alla memoria, alla fragilità dell’incontro con gli amici, della recitazione occasionale, primariamente per il rifiuto di prendere congedo dal testo, di sganciare il testo dalla poesia, da ‘quel che i versi non pol mai dar’. Nel caso di Marco persino quel pur esile e revocabile supporto, la memoria, mancava sempre in parte e spesso mancava del tutto, e certo gli scritti se ne volano non meno delle parole.
Tuttavia, come per i discorsi più campati in aria e le cose più strampalate c’è una speciale irreversibilità – non fosse che quel tanto di vita che passa nell’essere proferiti anche solo una volta, nel loro capitare così, casuale e pur necessario – credo che la loro traccia sia presente, la avvertiamo già ora, nelle cose e nella memoria.

Cambridge, 4 dicembre 2011

da Federica Polato

una delle divertenti serate di sezione…..

L’incontro con il Professor Praloran è stato uno dei più importanti del mio percorso universitario. La sua presenza gentile e straordinaria, la bellezza e la profondità dei suoi corsi hanno guidato e arricchito il mio sguardo sulla letteratura e sulla cultura in generale, lasciando tracce indelebili nella mia mente e nel mio cuore.

Alla figura dell’insegnante in lui si univano, preziose e uniche, la sensibilità e l’umanità. Mi mancano il dono spontaneo e limpido del suo saluto e del suo sorriso e quella capacità rara di trasmettere fiducia e consigliare gli studenti, a volte smarriti tra dubbi e incertezze lungo il cammino degli studi e delle scelte. Rammento con infinito affetto la sua disponibilità nell’ascolto e la generosità con cui mi accoglieva nel suo ufficio alla sezione d’italiano, dedicandomi del tempo malgrado i molti impegni.
Risento chiara la sua voce nei suoi scritti, negli appunti alle sue lezioni e nei suoi divertenti e poetici aneddoti che rendevano ancora più speciale ogni corso, ogni conversazione. Nel leggerli e ricordarli mi appaiono l’inclinazione naturale di Marco al comunicare, al contatto umano e la personalità e la forza delle sue parole che sapevano non soltanto esemplificare alla perfezione concetti e argomenti, ma anche ricreare magicamente un’atmosfera, un mondo.

Grazie Professore!
Gilda

Convegno «Marco Praloran 1955-2011. Lo stile di uno studioso»

A un anno dalla scomparsa, la Sezione d’Italiano dell’Università di 
Losanna ricorda la figura di Marco Praloran con il convegno

 «Marco Praloran 1955-2011. Lo stile di uno studioso »

 Il convegno, che riunirà studiosi e amici di Marco Praloran per illustrare il suo percorso scientifico e umano, avrà luogo nei giorni 8-9 settembre 2012 presso l’Università di Losanna.

Potete consultare il programma all’indirizzo :

http://www.unil.ch/ital/page92115.html

Per ulteriori informazioni potete contattare :

simone.albonico@unil.ch o gabriele.bucchi@unil.ch

La Sezione d'Italiano dell'Università di Losanna

Pipa

 

 

Còssa m’impòrte a mi se bute a vẽnto

còssa m’impòrte a mi se xe bõnassa

coa pipa in  bõca mi vègno contẽnto

e de tabàco no ghe n’ò mai massa.

 

 

Marco individuava nel dialetto chioggiotto, 10 suoni vocalici  che si potrebbero scrivere foneticamente così :

 i, u, a, à, o, ò, õ, e, è, ẽ

 

La strofetta del pescatore gli piaceva molto.

Per un periodo fumava la pipa, poi è tornato al Toscano.

 

Paolo Gagliardi

s

1.     Il rospo è fuggito dalle mani

E poi abbiamo attraversato una città e poi, prima di un’altra, quando già la vedevamo sulla sinistra, al di là del fiume, sopra di noi, siamo saliti sulla destra per una strada tutta chiusa dalle siepi, quasi senza luce, l’asfalto scuro, bagnato. E poi siamo entrati in una piccola stradina aperta, invece, e sopra questa stradina si scorgeva una casa rossa un po’ immersa tra gli alberi. ‘Bella – ho pensato – che bella!’

 

Spariva – riappariva salendo. C’era una curva secca, la macchina ha sfiorato un muretto e tre grandi uccelli neri, proprio allora, ci hanno attraversato la via. Erano grandissimi davanti al vetro. Volavano lenti, sospesi ai refoli d’aria, come privi di forza sembravano, impotenti nel dirigere il loro volo.

E mi è parso che ci venissero quasi addosso, quasi spinti a caso su di noi… Forse era il punto di vista della  macchina che dava questa impressione.

«Corvi?», ho chiesto.

«Quasi, cornacchie! – ha detto lui, e mi è seccato un po’ avere sbagliato ma è difficile distinguere i corvi dalle cornacchie – . Stanno volentieri qua! Ci sono quasi sempre, non contano niente.»

«Ah bene», ho risposto, e poi siamo arrivati e entrati nel giardino. Era tutto chiuso ma non morto, un po’ malmesso ma vivo, come una vita silenziosa, come respirasse piano – piano, intatta…

Faceva più freddo adesso e ci siamo seduti fuori su una panchina e lui ha fatto il the.

Tutto si apriva intorno – le nuvole e la foschia dissolte – come un tuffo nel paesaggio: prima un salto, poi un grande prato pianeggiante sotto di noi, poi di nuovo risalente, quasi a pari a noi, fino alla successione allineata delle case del paese,una chiesa, il campanile, e poi ancora case e siepi, piccoli paesi più in alto, sui pendii, tutto verdeggiante. ‘Che bello!’, ho pensato. Poi mi ha portato una giacca, «di Paolo» – ‘ma chi era? Come se lo conoscessi’ – mi ha aiutato ad infilarmela, una giacca da caccia, era enorme – e siamo stati lì, abbastanza in silenzio, buoni-buoni, a fumare anche, fino a quando annottava. Lui mi parlava un po’ e io ascoltavo soprattutto.

 

Poi tutto è cominciato a diventare azzurro, non solo le montagne, anche i boschi e i prati, non solo le cime, e poi tutto grigio, un grigio metallico splendente. Avevo freddo e ho cominciato un po’ a tirare su col naso.

«Andiamo, hai freddo!», ha detto.

«No! Vorrei restare un po’ ancora.» E lui è stato contento, a me è piaciuto che lo fosse.

«Ma si!», ho pensato. E’ diventato buio, proprio quasi buio, le immagini galleggiavano appena sopra le luci accese. Poi abbiamo chiuso tutto, l’ho aiutato anch’io, e siamo scesi a mangiare nella prima città, quella un po’ più lontana, che conoscevo già, ma non vedevo da tantissimo tempo.

Non lo conoscevo per niente allora, era la prima volta che venivamo. Anche la prima volta che uscivamo insieme. Non riesco tanto a ricordarmelo, lui, quel giorno; in parte sì, ma poco, come fosse adesso una figura lontana, chiusa in quell’evento, un pezzo di lui lontano, come un po’ risolto in sé, un frammento staccato dal resto. Un’ombra?…sì un po’, senza… come il contorno di lui, ma anche diverso, come ci fosse qualcosa che da lì non è più venuto, è venuto dell’altro però. Era simpatico – eh sì, questo sì, anche allora – poi per molto tempo non l’ho più rivisto…

S

Pernici dorate

E mio nonno fumava come una tempesta, come un grande camino di fonderia era, fumava sigarette piatte, Turmac si chiamavano. E una volta mi ha accompagnato a caccia con lui, lontani in Istria, io, lui e il suo dresseur… quello che gli allenava i cani, si chiamava Zaccaria e durante il viaggio succedeva così: che lui si dimenticava di cambiare marcia e il motore rombava, rombava e lui non si accorgeva… gli guardavo la nuca dietro, era enorme, tutta spessa-spessa a pieghe, i capelli cortissimi, ma la macchina rombava come andasse a duecento all’ora, era una macchina sportiva, ma lui non si accorgeva, a cosa pensava? Non si sa, fumava, fumava ininterrottamente, perduto era nei suoi pensieri – poi ho saputo che gli piacevano le donne…forse pensava a loro…bene faceva per me, io lo amavo e anche lui – e a un certo punto, Zaccaria non resisteva  più a questo rumore, e ha detto: «Cavaliere, siamo in terza» – avevamo fatto già tanta strada, cento chilometri, e lui:«Porco dio Zaccaria, non poteva dirmelo prima!» E prendeva la leva del cambio che voleva spaccarla, farla a pezzi, dio santo, quanto matto era! E poi, vicino a Trieste, era ormai ora di colazione, e figurati lui… aveva fame e allora :«Zaccaria, Elena, mi mangerei un pesce», così diceva e io ho detto: «va bene nonno, va bene un pesce.»

Non avevo paura di lui, diletta ero, e ci siamo fermati in un bel ristorante, all’ombra per i cani. Era ancora caldo e abbiamo mangiato fuori – si vedeva il golfo, fantastico! E l’Istria lontana: linee enormi aperte sull’orizzonte, grigio e azzurro scintillanti, il respiro del mondo.

Mi piacerebbe tornare, portare le bambine, perché no?, un sabato pomeriggio, perché no? Noi tre così buffi…e tutto il ristorante si è mangiato: branzini, orate e antipasti di ogni sorta: cappe sante, cappe lunghe, peoci e bisati e bevuto e fumato sempre, mentre mangiava. Tutto il ristorante si è mangiato, e ancora avrebbe mangiato…è che bisognava partire, si faceva tardi…dava del tu ai camerieri – adesso non si fa più, forse a Roma ancora: ‘portame questo, portame st’altro’, – ma non per disprezzo, no!, per convenzione, per civiltà,così, – e anch’io ho mangiato tanto e anche Mario Zaccaria, molto simpatico, in sé, signore anche lui, costruiva pipe in radica…e alla fine eravamo distrutti dal mangiare – distrutti…lui no – e siamo ripartiti nel pomeriggio dorato e siamo arrivati vicino a Pola prima di sera, Pola o Fiume…no! Pola era: «mi vegno da Pola / me fermo un momento / signori italiani / lasseme passar».

Era simpatico, sin pa ti co anche lui, credo, Noventa…come il nonno…chi mi ha raccontato che si incazzava con la moglie perché  sbagliava a bridge? E si incazzava così tanto che urlava e imprecava come un pazzo e il nipote che assisteva alle partite – me l’ha raccontato lui forse – ha avuto uno shock e ‘mai – si è detto, di fronte all’ira dello zio – mai giocherò a bridge nella mia vita’ … un po’ strano era però, forse, il nipote. E abbiamo viaggiato attraverso l’Istria, terra bellissima e siamo arrivati di sera…e ho dormito nella mia cameretta d’albergo davanti al mare. Non  potevo dormire con lui perché russava furiosamente …nessuno poteva dormirci, e le sue donne? Boh! E poi la mattina dopo siamo andati a caccia, a pernici, sulle colline davanti al mare, tra i vigneti, i piccoli campi, i muretti a secco, i boschi in parte.

    

Era bellissimo, da toccare il cuore, e i cani, i pointer di mio nonno, volavano, saette bianco-arancio, volavano e si incrociavano …via via…sempre via via, e andavano lontano – lontano, linee zigzaganti e poi in un attimo erano di nuovo qui, e nessuno li guidava … così loro – per perfetta maestria – facevano.

   

E ogni tanto fermavano – ero emozionata – immobili, spasmodici, come una violenza bloccata, sospesa a forza, gli occhi spalancati …dio santo, bello però e poi il frullo – che paura, che rumore di volare insieme – e gli spari, e una, o più raramente due, cadevano e il nonno :  «Maledizione! Porco dio…ma anche lei Zaccaria, anche lei…» Perché Mario Zaccaria tirava bene – ma anche lui sbagliava ogni tanto – e il nonno no, ma in realtà non gli importava, gli piaceva veder lavorare i suoi cani, quei cani meravigliosi.

 

E poi ero anche stanca di camminare e mio nonno ha detto alla guida – non mi ricordo il nome ma un nome italiano – «prendila in braccio!». E lui gentile, ero leggerissima allora, mi ha preso sulle spalle come fossi proprio una bambinetta e io protestavo, mi vergognavo, ma il nonno voleva così … e dall’alto ora vedevo quel mondo bellissimo e sentivo su di me il caldo delle spalle, il sudore, e con lui parlavamo piano per non disturbare la caccia e mi chiedeva della scuola, degli amici. Era simpaticissimo e poi diceva: «il cavaliere, ah il cavaliere!». Ma lo diceva con affetto – il nonno era generoso credo – poi a un certo punto abbiamo mangiato…  da dove arrivava la roba? Perché improvvisamente in una buca – ci sono tutte quelle buche , lì – è arrivata tantissima roba, un banchetto davvero, e una tovaglia bianca… da dove veniva, chi la portava? Déjeuner su l’herbe…altro che! Un pranzo nuziale era, e tutti mangiavamo con appetito …prosciutti, culatelli, soppresse, reggiano e mele gigantesche…

E poi assaporavamo la stanchezza – oblio del pomeriggio, luce calda che ti avvolge e la felicità nell’essere insieme congiunti e mio nonno cantava un’aria – cos’era, un racconto di Cechov? No! Oblomov, inimmaginabile, quel film di Michalkov… – cantava un’aria e la voce cresceva, cresceva, aumentava, si allungava per i campi. E io, dopo un po’ piangevo tra me, appena …di felicità, nostalgia di cose perdute…il timore confuso, queste, di non vederle mai più…ma una volta poi le avrei riviste invece… ma quando mio nonno smetteva, mi cercava con gli occhi, girava il suo collo enorme e solo me, solo me guardava…commuovendoci per amore.

 

Mi vegno da Pola

Mi vegno da Pola,

Son qua pa’ un momento,

Signore e Signori,

No’ féme parlar!

 

Gò perso la barca

I povari Inglesi

Ghe n’à cussì poche…

La barca gò dà.

 

Mi vegno da Pola,

Son qua pa’ un momento,

Signore e Signori,

No’ féme parlar!

 

Gò perso la casa.

I povari S-ciavi

No’ i gèra in tel suo…

La casa gò dà.

 

Mi vegno da Pola,

Son qua pa’ un momento,

Signore e Signori,

No’ féme parlar!

 

Gò perso i me morti.

La povara Italia

Xe tanto distràta…

I morti gò dà.

 

Mi vegno da Pola,

Son qua pa’ un momento,

Signore e Signori,

No’ féme parlar!

 

No’ gò la me casa – No’ gò la me barca,

No’ vogio fermarme – Né in tèra, né in mar,

No’ so se i me morti – Sarà benedeti…,

Signori Italiani – Lasséme passar!

 

 

Giugno 2005 in ufficio a Losanna

Il mio ricordo di Marco

C’era in Marco un atteggiamento di cortesia (nel senso più alto e antico di questa parola) sorridente, aristocratica e schiva che restava praticamente immutato verso chiunque lo avvicinasse. Nel suo ufficio all’Università di Losanna, quando capitava di sorprenderlo a tarda sera, chino sul computer, alla fine di una giornata di lezioni e di lavoro, sarebbe potuto entrare uno studente, il vincitore del Giro d’Italia o il suo amatissimo pianista Sviatoslav Richter: Marco avrebbe avuto la stessa reazione. Si sarebbe scusato della confusione, avrebbe sgombrato la sedia a dondolo di buste e pacchi (quasi tutti mai aperti) e avrebbe fatto accomodare subito il suo interlocutore; poi, magari sorseggiando discretamente i resti di una bottiglia di Coca Cola abbandonata nei pressi da tempo immemorabile, avrebbe cominciato a parlare. O meglio: avrebbe fatto parlare chi gli stava davanti: -di che?- di qualsiasi cosa di una sonata di Beethoven, della luce sul lago, della partita di rugby della sera prima, o della difficoltà di essere felici su questa terra. Marco aveva ricevuto il dono inestimabile di far sentire importante -anche solo per cinque minuti – chi gli stava davanti, conquistandolo definitivamente. Questo dono gli veniva, credo, dal fatto di considerare sé stesso anzitutto come un naufrago, un pellegrino, un cavaliere errante su questa terra e dal riconoscere allo stesso modo in chi aveva davanti a sé un altro pellegrino alla ricerca di un senso alla strada che il destino gli aveva dato da percorrere, come il viandante, il Wanderer, di Schubert.

Con Marco si aveva l’impressione che la porta fosse sempre aperta. Ma poco più in là c’era uno spazio segreto  che non coincideva con quella che abitualmente si suole chiamare la “vita privata”. Era molto di più. Era uno spazio di cui chi gli stava accanto percepiva misteriosamente e magari improvvisamente l’esistenza, ma non i confini; uno spazio in cui Marco si rifugiava per continuare un dialogo antico, silenzioso e tutto suo con le cose che amava, con le voci dei suoi autori prediletti, con la Natura, con la Musica, con i suoi cani, con la Vita e il suo mistero.

“Vivere…vivere…sè un gran bidòn” mi disse una volta durante una passeggiata sul lago, citando non so quale autorità popolare del suo villaggio di Gazzo. E oggi mi chiedo se magari non l’avrà inventata lui quella frase che porto sempre con me… Alla sfida del vivere, dono o bidone che sia, Marco ha tenuto testa sino alla fine, con coraggio, leggerezza, autoironia: è questa l’eredità più preziosa che egli lascia a tutti noi.

Gabriele Bucchi

 

da parte di Andrea: una poesia di Marco

(more…)

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