Marco Praloran Un luogo per condividere il ricordo di Marco

da parte di Andrea: una poesia di Marco

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da Elena

 

La première fois que j’ai vu Marco Praloran ce fut le 6 janvier 2004 (Befana…), à 8h du matin,  lors d’une réunion entre les cadres de la Bibliothèque Cantonale et Universitaire et les enseignants de la Section d’Italien de l’Université de Lausanne. Il y avait de nouveaux professeur(e)s qui souhaitaient cette rencontre et j’étais présente en tant que responsable de la Section des Littératures de la BCU, et donc de l’Italien. Ces personnes sont arrivées l’une après l’autre dans la salle de conférences, et j’ai été tout de suite intriguée par un monsieur longiligne et un peu gauche qui semblait venu d’une autre planète, l’air un peu perdu, bien que très souriant, poli et attentif à nos explications. J’ai su après qu’il s’agissait de Marco Praloran, et qu’il avait gagné le concours pour le remplacement du Professeur Papini. Il a posé, dans son français encore un peu approximatif – et qui allait le rester, malgré les efforts didactiques de plusieurs personnes – quelques questions très pertinentes et j’ai rapidement eu un sentiment de familiarité, comme si je l’avais déjà connu avant, dans une vie antérieure.  Après la séance, j’ai rédigé un procès-verbal que j’ai envoyé à tout le monde, il m’a  gentiment remerciée par mail. Et là, tout de suite, j’ai senti qu’on allait être proches et qu’il deviendrait bientôt pour moi une sorte de frère plus jeune.

Quelques jours plus tard, je l’ai vu à la cafétéria de la Banane et on s’est dit bonjour. Puis Pierre, l’un de mes amis, m’a annoncé qu’on lui avait proposé de donner des leçons de français et échange de leçons d’italien avec un professeur nouvellement arrivé. J’ai sauté en l’air : c’est Marco Praloran ? Pierre ayant répondu par l’affirmative, je lui ai demandé d’organiser une sortie les trois ensemble, car je voulais absolument mieux le connaître. On a pris rendez-vous pour manger une pizza à La Bruschetta, on s’est rapidement tutoyés et, de fil en aiguille, on a commencé à manger de temps en temps ensemble à la Banane, avec les autres membres de la section. Entre temps, le printemps était arrivé, puis le début de l’été. Un jour, on m’a dit que Marco était venu en voiture et qu’il avait dormi dedans au Simplon. Je lui ai proposé de venir chez moi, j’avais une chambre d’amis avec une salle de bain, et c’est ainsi qu’on s’est liés. On a commencé à se raconter nos vies, nos petits secrets, il m’a invitée à  Vicenza. J’ai adoré cette ville, puis Belluno, j’ai rencontré sa famille, j’ai écumé les brocantes pour son appartement. Puis il y a eu Martina, Chiara, le mariage, le bonheur, les promenades près du lac après les repas, les conversations infinies, les pâtes à Montolivet, mille instants de joie qui restent dans mon cœur pour toujours. Le reste est silence…

“Parla di una persona che si presenta in modo comico…”

In seconda media mio figlio Matteo ha scelto Marco per un classico tema di italiano. Lo allego diviso in tre parti: è lo scanner della malacopia.

(Per visualizzare il tema si deve cliccare sulle singole icone e poi sull’immagine ridotta delle singole pagine)

Bibì Bibò e capitan Cocoricò

Ricordo di Marco (letto il 10 dicembre 2011, nella chiesetta di St-Sulpice)

Non mi è mai venuto in mente di conservare qualcosa di Marco; di mettere in salvo cose che mi servissero a ricordarlo! Da quando non c’è più, invece, sento la necessità di raccogliere la sua memoria per fissarla; per non rischiare di perdere ciò che di lui mi resta.

Nei primissimi tempi la ricerca era fisica: cercare tracce concrete di Marco. Il suo volto sulle fotografie; la sua scrittura nei libri che mi ha regalato; la sua voce in casuali registrazioni; magari qualche traccia su internet; il segnalibro nel volume sugli uccelli svizzeri che leggeva sempre quando veniva a casa (il segnalibro è rimasto tra le pagine dedicate alle anatre).

Ma la ricerca era vana e dannosa: perché ciò che mi riportava alla sua concretezza, alla sua persona fisica, alle cose che aveva toccato, non solo non mi bastava a restituirne la presenza ma soprattutto mi provocava un sentimento di vuoto, enorme; tutto ciò rendeva ancora più triste la sua scomparsa.

Allora ho cominciato – quasi senza rendermene conto, quasi a protezione di me stesso – a trasferire la ricerca nella mia mente e a staccarmi quanto più potevo dal Marco in carne e ossa: pensavo a Marco come ad una astrazione fatta di intelligenza, di dolcezza, di generosità, di fragilità, di conoscenza, di passione. Il mio Marco – in questa fase – vagava in uno spazio lontano dalla realtà; dal nostro comune vissuto. E anche questo però non mi bastava.

Sono ridisceso sulla terra per cercare il Marco da antologia: quello che mi aveva regalato momenti indimenticabili, a me e a tutti coloro che l’avevano frequentato. Quei momenti unici che sottolineavano il suo essere speciale. Sia dentro che fuori l’università. Il fatto è che per Marco non c’era veramente un dentro o un fuori: il professore sparava alle beccacce e il cacciatore parlava dalla cattedra; i ritmi del metricologo riecheggiavano sul campo da tennis; l’epica e la cavalleria sostenevano le gesta del calciatore. Umanità e cultura erano tutt’uno in lui: grande umanità e grande cultura.

Il bagaglio culturale: non c’è espressione più sbagliata per definire la cultura di Marco. Perché la sua cultura, Marco, non se la portava addosso: gli scorreva dentro. E non c’era per lui distinzione tra le culture: la cultura letteraria, musicale, venatoria, sportiva, politica, ogni forma di cultura contava nello stesso modo… Certo: contava nello stesso modo, ma dopo che aveva soddisfatto il suo non comune senso della qualità. Solo chi ha conosciuto Marco può intuire la complessità di questo filtro qualitativo.

Di fatto, mi sono reso conto che anche questa pista era sbagliata: non c’erano momenti più memorabili degli altri: come in un’antologia o in una hit parade.

Quello che mi manca di Marco è la routine dell’amicizia. Dei gesti e delle parole che pur ripetendosi, significano sempre qualcosa, come stima reciproca, piacere di stare insieme, condivisione delle passioni, dell’ironia, del bel tempo. Quei gesti e quelle parole che si scambiano tra amici.

Mi mancano le sue pacche sulle spalle: tre colpetti veloci e leggeri col palmo, senza dire nulla, tra la porta della sezione e le scale, quando s’andava a bere qualcosa in caffetteria. Era il suo modo per salutarmi, per comunicarmi il suo affetto. E lui avrebbe bevuto un tè verde che non avrebbe finito, come sempre.

Mi manca il lancio della sua racchetta, che regolarmente volava in rete, quando sbagliava dei colpi che avrebbe voluto riuscire: non la scagliava; la lanciava con tenerezza, facendola roteare morbidamente come un frisbee. Un gesto di stizza di cui poi si pentiva subito, rievocando mitici episodi del tennis d’altri tempi.

Mi manca di vederlo appoggiato al lavello, nella sua cucina, dopo una cena tra amici. Con il sigaro in bocca, che lava i piatti e rifiuta che lo aiuti.

Mi mancano alcune parole di Marco, con le quali riusciva a farmi dimenticare la concretezza della vita: parole stranianti, assurde, come il suo grido di battaglia “Bibì Bibò e il Capitan Coccoricò”.

Come quella sua domanda, quasi quotidiana, che ci lasciava attoniti, immediatamente seguita da un nome altisonante o favoloso o misteriosamente evocativo. Marco spesso ci chiedeva: “Che Santo è oggi?”. Sarebbe stato contento di sapere che tra i santi di oggi ci sono “San Gemello di Ancìra” e “San Luca di Melicuccà”.

Matteo

da elena

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