1.     Il rospo è fuggito dalle mani

E poi abbiamo attraversato una città e poi, prima di un’altra, quando già la vedevamo sulla sinistra, al di là del fiume, sopra di noi, siamo saliti sulla destra per una strada tutta chiusa dalle siepi, quasi senza luce, l’asfalto scuro, bagnato. E poi siamo entrati in una piccola stradina aperta, invece, e sopra questa stradina si scorgeva una casa rossa un po’ immersa tra gli alberi. ‘Bella – ho pensato – che bella!’

 

Spariva – riappariva salendo. C’era una curva secca, la macchina ha sfiorato un muretto e tre grandi uccelli neri, proprio allora, ci hanno attraversato la via. Erano grandissimi davanti al vetro. Volavano lenti, sospesi ai refoli d’aria, come privi di forza sembravano, impotenti nel dirigere il loro volo.

E mi è parso che ci venissero quasi addosso, quasi spinti a caso su di noi… Forse era il punto di vista della  macchina che dava questa impressione.

«Corvi?», ho chiesto.

«Quasi, cornacchie! – ha detto lui, e mi è seccato un po’ avere sbagliato ma è difficile distinguere i corvi dalle cornacchie – . Stanno volentieri qua! Ci sono quasi sempre, non contano niente.»

«Ah bene», ho risposto, e poi siamo arrivati e entrati nel giardino. Era tutto chiuso ma non morto, un po’ malmesso ma vivo, come una vita silenziosa, come respirasse piano – piano, intatta…

Faceva più freddo adesso e ci siamo seduti fuori su una panchina e lui ha fatto il the.

Tutto si apriva intorno – le nuvole e la foschia dissolte – come un tuffo nel paesaggio: prima un salto, poi un grande prato pianeggiante sotto di noi, poi di nuovo risalente, quasi a pari a noi, fino alla successione allineata delle case del paese,una chiesa, il campanile, e poi ancora case e siepi, piccoli paesi più in alto, sui pendii, tutto verdeggiante. ‘Che bello!’, ho pensato. Poi mi ha portato una giacca, «di Paolo» – ‘ma chi era? Come se lo conoscessi’ – mi ha aiutato ad infilarmela, una giacca da caccia, era enorme – e siamo stati lì, abbastanza in silenzio, buoni-buoni, a fumare anche, fino a quando annottava. Lui mi parlava un po’ e io ascoltavo soprattutto.

 

Poi tutto è cominciato a diventare azzurro, non solo le montagne, anche i boschi e i prati, non solo le cime, e poi tutto grigio, un grigio metallico splendente. Avevo freddo e ho cominciato un po’ a tirare su col naso.

«Andiamo, hai freddo!», ha detto.

«No! Vorrei restare un po’ ancora.» E lui è stato contento, a me è piaciuto che lo fosse.

«Ma si!», ho pensato. E’ diventato buio, proprio quasi buio, le immagini galleggiavano appena sopra le luci accese. Poi abbiamo chiuso tutto, l’ho aiutato anch’io, e siamo scesi a mangiare nella prima città, quella un po’ più lontana, che conoscevo già, ma non vedevo da tantissimo tempo.

Non lo conoscevo per niente allora, era la prima volta che venivamo. Anche la prima volta che uscivamo insieme. Non riesco tanto a ricordarmelo, lui, quel giorno; in parte sì, ma poco, come fosse adesso una figura lontana, chiusa in quell’evento, un pezzo di lui lontano, come un po’ risolto in sé, un frammento staccato dal resto. Un’ombra?…sì un po’, senza… come il contorno di lui, ma anche diverso, come ci fosse qualcosa che da lì non è più venuto, è venuto dell’altro però. Era simpatico – eh sì, questo sì, anche allora – poi per molto tempo non l’ho più rivisto…