Marco Praloran Un luogo per condividere il ricordo di Marco

Giugno 2005 in ufficio a Losanna

Il mio ricordo di Marco

C’era in Marco un atteggiamento di cortesia (nel senso più alto e antico di questa parola) sorridente, aristocratica e schiva che restava praticamente immutato verso chiunque lo avvicinasse. Nel suo ufficio all’Università di Losanna, quando capitava di sorprenderlo a tarda sera, chino sul computer, alla fine di una giornata di lezioni e di lavoro, sarebbe potuto entrare uno studente, il vincitore del Giro d’Italia o il suo amatissimo pianista Sviatoslav Richter: Marco avrebbe avuto la stessa reazione. Si sarebbe scusato della confusione, avrebbe sgombrato la sedia a dondolo di buste e pacchi (quasi tutti mai aperti) e avrebbe fatto accomodare subito il suo interlocutore; poi, magari sorseggiando discretamente i resti di una bottiglia di Coca Cola abbandonata nei pressi da tempo immemorabile, avrebbe cominciato a parlare. O meglio: avrebbe fatto parlare chi gli stava davanti: -di che?- di qualsiasi cosa di una sonata di Beethoven, della luce sul lago, della partita di rugby della sera prima, o della difficoltà di essere felici su questa terra. Marco aveva ricevuto il dono inestimabile di far sentire importante -anche solo per cinque minuti – chi gli stava davanti, conquistandolo definitivamente. Questo dono gli veniva, credo, dal fatto di considerare sé stesso anzitutto come un naufrago, un pellegrino, un cavaliere errante su questa terra e dal riconoscere allo stesso modo in chi aveva davanti a sé un altro pellegrino alla ricerca di un senso alla strada che il destino gli aveva dato da percorrere, come il viandante, il Wanderer, di Schubert.

Con Marco si aveva l’impressione che la porta fosse sempre aperta. Ma poco più in là c’era uno spazio segreto  che non coincideva con quella che abitualmente si suole chiamare la “vita privata”. Era molto di più. Era uno spazio di cui chi gli stava accanto percepiva misteriosamente e magari improvvisamente l’esistenza, ma non i confini; uno spazio in cui Marco si rifugiava per continuare un dialogo antico, silenzioso e tutto suo con le cose che amava, con le voci dei suoi autori prediletti, con la Natura, con la Musica, con i suoi cani, con la Vita e il suo mistero.

“Vivere…vivere…sè un gran bidòn” mi disse una volta durante una passeggiata sul lago, citando non so quale autorità popolare del suo villaggio di Gazzo. E oggi mi chiedo se magari non l’avrà inventata lui quella frase che porto sempre con me… Alla sfida del vivere, dono o bidone che sia, Marco ha tenuto testa sino alla fine, con coraggio, leggerezza, autoironia: è questa l’eredità più preziosa che egli lascia a tutti noi.

Gabriele Bucchi

 

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