Ho finito, ma prima di finire del tutto aggiungo una cosa che non è in contraddizione con tutto quanto detto prima, e se lo è – una contraddizione – non è sostanza ma accidente: un bellissimo accidente. Voglio cioè finire dicendo questo: che lo studioso qual era Marco, cioè moderno, laicamente intellettuale, scientifico nonostante certi suoi leggendari lapsus calami, questo studioso non si vergognava di usare talvolta parole ed espressioni d’antan, diciamo ingenue e impressionistiche, e appunto ormai tagliate fuori dai repertori della critica professionistica. E intendo parole ed espressioni come, cito, «La poesia sostenuta da un potente soffio romantico»; oppure: «Molto libera e slanciata è la traduzione»; e poi: «Scioltezza e slancio espressivo»; e poi ancora: emozionante; incantevole; «fresca emotività»; respiro.
Colui che voleva e sapeva guardare oltre la superficie dei testi, sapeva anche che di quell’oltre l’analisi critica non può essere un’equivalenza esatta ed esaustiva. Arrivati al limite, giunti a una certa soglia, non resta dunque che emozionarsi, restare ammirati e basta, stupirsi, e non vergognarsi di comunicare al lettore tali emozioni. E cioè anche usando superlativi, molti in Marco, più della media, tra cui nel primo saggio su Noventa uno come, cito, «liricissimo». Oppure usando talvolta espressioni al limite del fumettistico come formidabile, stupefacente, prodigioso. Ed è qui, anche qui, che io ritrovo il mio caro, originale e intelligente amico, e per certi versi inattuale come il suo Noventa. Ne ritrovo – come direbbe lui – la voce, e così sorrido e piango insieme. Grazie.