Marco Praloran. La prima volta che ho letto il suo nome era in calce alla presentazione di un corso di storia della lingua italiana all’Università di Losanna. La prima volta che ho visto il suo volto era all’interno di un’aula del terzo piano dell’allora B2 a Dorigny. La prima volta che l’ho sentito parlare mi sono chiesta “che ci faccio qui”? Da allora sono passati diversi anni, ma per i primi quattro sono rimasta incollata a quei banchi losannesi, incantata dall’entusiasmo, dall’erudizione, dalla passione di Marco Praloran nei confronti degli scrittori e delle vicissitudini della lingua italiana. Non chiedetemi di raccontare aneddoti e di apporre foto. Il mio ricordo di “Pralo” (come noi studenti familiarmente lo nominavamo) è fatto di piccole porzioni, di immagini che si accavallano. Gli occhi che brillano al solo nominare Petrarca o Ariosto, la leggerezza nell’intraprendere discorsi di altissima cultura, la goffa espressione di sorpresa quando per l’ennesima volta si accorge di aver perso gli occhiali. E poi l’energia, l’entusiasmo trasmesso da quella cattedra, la sana curiosità con cui ascoltava le presentazioni dei nostri lavori, la voglia di vederci appassionati e attaccati alle nostre radici linguistiche quanto lui. Un sorriso, una parola d’incoraggiamento e una battuta per smorzare l’aria troppo seria dell’istituzione accademica non sono mai mancati nella sezione di italiano. Il professore Praloran, per me, rimarrà tale: un mosaico di momenti ed espressioni che hanno reso i miei studi migliori. E anche quando ripenso all’angoscia nel non vederlo arrivare il giorno della difesa della mia tesi di laura (il treno era in ritardo, non vi hanno avvertito? ci disse mezz’ora dopo…), non posso che sorriderne: “Pralo” era anche questo!